Fare
l’insegnante non è proprio come fare il muratore.
Se
faccio il muratore, lavoro seriamente e utilizzo buoni materiali, ho
la certezza che la mia casa non crollerà. Se faccio l’insegnate e
lavoro seriamente e ho a disposizione tutti i supporti possibili e
immaginabili, non ho la certezza di ottenere buoni risultati.
Facilmente si può valutare il lavoro del muratore, tutt’altra cosa
e farlo con il lavoro dell’insegnante.
Ritengo
molto rischioso cercare di giungere ad un modello cui fare
riferimento per una corretta valutazione o auto-valutazione del
proprio operato. E’ assai rischioso costringere il processo
educativo in una griglia rigida di risultati da ottenere. Quale
criterio o gruppi di criteri potranno mai essere validi riferimenti
per analizzare una realtà così multiforme e in continua evoluzione
come quella del processo educativo?
Se
è vero, secondo lo schema concettuale proposto da Mitzel (citato in
Bennett, 1981), che una delle cinque angolature da cui esplorare
l’efficacia dell’insegnamento
è “il profilo
professionale dell’insegnante,
come repertorio di competenze da impiegare produttivamente in
rapporto alla concreta situazione educativa”, mi chiedo anche che
differenza c’è tra un insegnante che sa 5, e 5 trasmette e un
insegnante che sa 10 ma trasmette 3? Anche se io fossi il più grande
esperto mondiale in una qualche competenza, ma trasmettessi ben poco,
che valore avrebbe questo in una possibile auto-valutazione del mio
operato?
E
il mio “impegno
professionale nella scuola”
(altra angolatura proposta da Mitzel) come potrebbe essere valutato?
Senza niente togliere a coloro che ricoprono le funzioni più
disparate, ma se io non amo gli incarichi che non mi mettono a
strettissimo contatto con i ragazzi, se non mi sento pronta o
competente per ricoprire una qualsiasi funzione nella scuola che non
sia quella di “insegnare” devo auto-valutarmi negativamente?
Oppure quali sarebbero gli incarichi che mi farebbero guadagnare dei
punti nella valutazione?
E
non mi sentirei mai individualista o solipsista, concetto quanto mai
lontano dall’insegnamento. Come si possono assumere i concetti
dell’egoismo e dell’utile individuale assieme a quello
dell’insegnare, cioè dell’ “imprime un segno”, del
comunicare, del fornire a qualcun altro una conoscenza, una
possibilità, un ragionamento?
E
che dire degli insegnanti che per star dietro ai vari “impegni
professionali nella scuola”, trascurano il lavoro in classe?
Anche
la “soddisfazione degli allievi, come rispondenza alle aspettative
dei destinatari dell’azione formativa” è un aspetto delicato. A
volte ci sono allievi soddisfatti di insegnanti definiti “mediocri”
e ci sono allievi insoddisfatti di insegnanti considerati ottimi. I
ragazzi spesso apprezzano aspetti del proprio insegnante che stonano
con il “profilo e impegno personale” del docente.
E
non è vero che preferiscono gli insegnati che li fanno lavorare
meno. Mi sbaglierò, ma credo di aver compreso che i ragazzi vogliono
sostanzialmente chiarezza e uniformità di comportamento, vogliono
essere gratificati (perché in casa spesso non lo sono), voglio
libertà di parola, vogliono lavorare senza disperdere le energie e
vogliono quella che loro genericamente definiscono “giustizia”.
Forse
ci si potrebbe basare sui “risultati di apprendimento, come esiti
indiretti dell’azione formativa in base a cui verificarne
l’efficacia”. Ma quante volte i risultati non hanno corrisposto i
nostri sforzi, il nostro impegno, la nostra professionalità! Magari
perché è mancato il tempo, il sostegno della famiglia (che talvolta
troppo delega) o per altre ragioni.
Che
cos’è allora l’insegnamento se non una farfalla che più si
cerca di acchiappare e più sfugge, che più si cerca di catalogare e
più svincola da ogni catalogazione, di cui esistono tante varietà,
quanti sono gli insegnanti su questo pianeta?
Parrebbe
a questo punto ovvio concludere che il rischio è troppo alto, che
troppe sono le variabili in gioco per fornire un modello credibile
cui fare riferimento.
Invece
no. Bisogna
fare questo tentativo, cercare di creare dei criteri, tentare di
analizzare l’insegnamento in quegli aspetti che meglio possano
essere valutabili. Ma questi criteri dovrebbero essere quanto mai
suscettibili di cambiamenti, modificabili in ogni realtà scolastica.
Questa è un’esigenza reale perché non di rado si incontrano
docenti che si considerano ancora detentori di un sapere
misterioso (eccoli i veri solipsisti), e quali piccoli reucci ti
guardano dall’alto in basso della loro esperienza e in classe
dettano regole assurde e impartiscono punizioni incomprensibili.
O
che dire di chi lavora esclusivamente “a sentimento”, rollando
di qua e di là come vascelli che non sanno che direzione prendere,
affidandosi troppo alle capacità di improvvisazione, proponendo
modelli incerti e troppo fragili ad una gioventù già di per se
stessa incerta e fragile. Magari si auto-valutano degli ottimi
insegnanti.
E
se quindi una valutazione deve necessariamente esistere che sia non
un’ennesima scusa per ghettizzare gli insegnanti un po’ fuori dal
coro, quelli che magari non fanno memorizzare tutte le capitali del
mondo ai propri alunni, ma trasmetto ideali, condividono esperienze
valide, li fanno realmente crescere emotivamente, sviluppando la
fantasia, la creatività, spingendo alla tolleranza, al superamento
dell’egocentrismo, ecc. Che provino gli studiosi a valutare questi
aspetti.
Ma
se proprio vogliamo “intrappolare” questa farfalla, preferisco
che si parli di valutazione centrata non
“sulle azioni o sui soggetti”, ma “sulle azioni e
sui soggetti”. Vorrei che non fosse un modello rigido cui
ricondurre tutto, ma più modelli che scaturiscano da più ambiti
(psicologico, pedagogico, sociologico, antropologico, ecc.). Vorrei
un modello che variasse da contesto a contesto, da realtà a realtà,
che tenga realmente conto dei “contesti” e delle “realtà”.
Più
che un modello definito e rigido, di items da convalidare, mi
verrebbe in mente una struttura tipo quella dell’atomo, con un
nucleo e tante particelle che ruotano intorno. Il nucleo sarebbe la
relazione insegnate-alunno, e le particelle sarebbero tutte le
variabili possibili e immaginabili dell’alunno (famiglia, società,
gruppo dei pari, ecc.), dell’insegnante (competenza, esperienza,
ecc.) e la variabile delle variabili, quel qualcosa che non si può
catalogare, che non troveremo mai in nessun manuale della
Valutazione, su cui nessun docente universitario potrà mai tenere
una lezione.
Ma
che quando incontriamo un docente che ce l’ha, la riconosciamo al
volo. O meglio, dal volo.
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